Synthesis, vol. 30, no. 2, e140, agosto 2023-enero 2024. ISSN 1851-779X
Universidad Nacional de La Plata
Facultad de Humanidades y Ciencias de la Educación
Centro de Estudios Helénicos

Articulos

La Theanó di Michele Coniata fra παίγνιον erudito e rivelazioni ispirate

Marco Carrozza

Università degli Studi di Torino, Italia
Cita recomendada: Carrozza, M. (2023). La Theanó di Michele Coniata fra παίγνιον erudito e rivelazioni ispirate. Synthesis, 30(2), e140. https://doi.org/10.24215/1851779Xe140

Sommario: Il presente contributo si propone di approfondire, sulla scia di studi già personalmente condotti, ulteriori sfaccettature di un epillio tardo-bizantino poco noto (Michele Coniata, Theanó), eppure estremamente interessante sia sotto il profilo letterario che sotto quello più latamente culturale. In particolar modo ci soffermeremo su due sezioni del poema, ovvero il proemio e la rivelazione ispirata della (neo)pitagorica Theanó, annunciata, non a caso, fin dal principio del poemetto. Per esigenze di accessibilità al testo e alla traduzione da noi fornita, i versi presi in esame sono riportati come appendice al presente contributo.

Parole: Michele Coniata, Theanó, poesia tardo-bizantina.

The Michael Choniates’ Theanó among Erudite παίγνιον and Inspired Revelations

Abstract: This paper aims to deepen, on the basis of studies personally conducted, further facets of a little-known late Byzantine epyllion (the Theanó by Michael Choniates), and yet extremely interesting both from a literary and a more broadly cultural point of view. In particular, we will focus on two sections of the poem, that is the proem and the inspired revelation of the (neo)pythagorean Theanó, announced from the very beginning of the poem. For the purpose of facilitating the consultation of the text and its first translation to a modern language, the lines examined are reproduced as annex to the following contribution.

Keywords: Michael Choniates, Theanó, Late Byzantine Poetry.

La Theanó,1 epillio composto nella Kunstsprache epica all’indomani della fondazione del ducato di Nasso,2 si caratterizza per una densità letteraria e simbolica che merita di essere investigata da svariati punti di vista.3 Coniata, che si è rifugiato presso l’isola di Ceo4 per sottrarsi al dominio dei Latini,5 dichiara sin da subito di voler elogiare l’albero di fico che adorna il vestibolo della sua nuova dimora, pianta di cui si ripercorre la genesi attica (vv. 8-80) e che, dopo le rivelazioni della neopitagorica Theanó, va soggetta a un processo di allegorizzazione aritmologica che ne fa un simbolo tangibile della Trinità (vv. 95-319).6 A questa curiosa aretalogia botanica fa seguito l’elogio dell’isola di Ceo che ha accolto il poeta, il quale anzitutto si produce in una serie di exempla biblico-mitici che hanno per oggetto il tema della ξενία, per poi passare alla celebrazione degli illustri abitanti a cui l’isola diede i natali (vv. 320-381); da ultimo, prende forma un encomio particolarmente elaborato dei Cei e delle loro fantasmagoriche imprese (vv. 382-457).7

Il presente lavoro intende analizzare due sezioni del poemetto che ne svelano la duplice natura di lusus letterario rivolto ad una platea di πεπαιδευμένοι e, allo stesso tempo, di testimonianza finora inesplorata di commistione fra le dottrine neopitagoriche, latamente intese, e la dottrina trinitaria ortodossa.

1. Proemio e προθεωρία serio-comica

vv. 1-7: il poemetto si apre con una dichiarazione cautelativa volta a rivendicare l’utilità morale del testo, che non si riduce soltanto a un’esercitazione retorica che ha per oggetto il fico e le sue proprietà, ma è anche e soprattutto un discorso che vorrebbe sortire un effetto didattico e parenetico sui suoi lettori. Premesse di questo genere (προθεωρίαι), che di fatto già forniscono un orientamento di lettura, sono per lo più anteposte a testi non pienamente in linea con la concezione culturale bizantina, che tende a fare in particolar modo della letteratura un mezzo privilegiato di ammaestramento e di parenesi etico-pastorale.8

Ἡσυχίης: parola ad alto tenore programmatico, che si articola in una varietà pluriconnotata di significati: da quelli più tradizionali, politici, poetologici e filosofico-sapienziali, a quelli recenziori, attinenti per lo più all’ambito della teologia monastica bizantina. Michele sembra evocare i significati antichi del termine e tracciarne una sorta di stratigrafia evolutiva: il meccanismo, nella sostanza profondamente umanistico, consiste nella parziale riattivazione, peraltro ristrutturante nel nuovo contesto, di nuclei semantici marcati in senso diacronico o contestuale e, proprio per questa loro spiccata dimensione connotativa, per lo più sopiti nella coscienza linguistica ed enciclopedica dei contemporanei.

Il greco antico prevedeva per la parola almeno quattro accezioni (o connotazioni), che qui sembrano, per l’appunto, coesistere e integrarsi: una breve rassegna di questi significati ci consentirà di cogliere la complessità dell’operazione allusiva che è qui sapientemente dispiegata.

Rileviamo anzitutto un significato di tipo etico, antesignano del significato teologico che il termine assumerà in età cristiana. L’ἡσυχία è allora, in questa accezione, il viatico della virtù, è ciò che conduce alla vita onorata: cf. Phocyl. 8 D3 e l’aneddoto di Eracle al bivio in Xen., Mem. 2.1.21-34 (= Prodic., 84 B 2 D.K.), dove Ἀρετή, portavoce della παιδεία tradizionale greca, imbastisce il suo πιθανὸς λόγος sul principio secondo cui gli dei non concedono nulla di buono agli uomini senza che questi si adoperino con fatica e impegno (Xen., Mem. 2.1.27-28 ἄνευ πόνου καὶ ἐπιμελείας), e la scelta di questo indirizzo di vita riposa proprio su quella sorta di raccoglimento meditativo che i greci chiamavano ἡσυχία.

La disposizione d’animo indicata dal termine ἡσυχία è pertanto preliminare alla meditazione che si svilupperà intorno al fico, pianta virtuosa per eccellenza. Anche qui dunque viene ribadito lo statuto propedeutico dell’ἡσυχία, intesa come predisposizione propizia del ragionamento e di ogni risoluzione che da esso dipenda. Pertanto il progetto di comporre l’epillio è il frutto di una scelta ragionata e presa in tutta calma, e ciò che più di ogni altra cosa suggella la bontà della scelta è proprio il suo delinearsi come πόνημα (v. 3): nel topos delle due Vie, che dà forma alla visione etica dei greci, la strada più ardua e scoscesa conduce alla virtù, quella più agevole e lastricata di piaceri porta alla κακία. Anche in un momento di evasione dagli impegni quotidiani, Michele non sospende il proprio magistero pastorale, anzi si sforza di erudire delectando, ed esclude così l’eventualità di un passatempo frivolo. L’ἡσυχία è dunque qui, come in antico, saldamente ancorata ai concetti di πόνος, ἐπιμέλεια e σωφροσύνη, mentre è ben lontana da quello deteriore tradizionalmente espresso dal termine ἀπραγμοσύνη. L’interdipendenza di ἡσυχία e σωφροσύνη è peraltro esplicitamente enunciata in Epicarmo: cf. fr. 101 Kaibel ἁ δ’ ῾Ασυχία χαρίεσσα γυνά, καὶ Σωφροσύνας πλατίον οἰκεῖ (“L’ἡσυχία è una donna graziosa, e abita vicino a σωφροσύνη”).9

Il termine acquista poi una ben delineata caratura sociopolitica nel contesto della πόλις antica, in cui con ἡσυχία si intende la condizione ottimale della vita poleica, l’assenza di lacerazioni nel corpo civico e la piena concordia degli intenti che lo guidano. In Pind., Ol. 4.16 l’῾Ησυχία, addirittura ipostasizzata, viene definita φιλόπολις, e ad essa si rivolge con pensiero puro (καθαρᾷ γνώμᾳ) Psaumi di Camarina, il dedicatario dell’epinicio, che si accingeva, anche grazie alle sue vittorie olimpioniche, ad assumerne il ruolo di προστάτης.10 Si consideri ancora la rilevanza che il concetto assume nell’opera di Tucidide, che la vagheggia come un valore ormai perduto, vittima della πολυπραγμοσύνη di politici spregiudicati che la riducono al rango di mera pigrizia.11

Ebbene, anche di questo sviluppo deteriore, rievocato dall’impiego assai eloquente del termine ἄθυρμα, si avvale Michele, che rischia, con il suo insistito stropicciamento lessicale, di innescare un vero e proprio cortocircuito semantico; ma è proprio in questa dimensione di plurivocità che si rivela la cifra stilistica forse più caratterizzante del poemetto: una concomitanza di sensi che è propria degli intellettuali più avvertiti di quest’epoca, ma che è anche la risultante del circuito integrato, e se vogliamo liminare, dell’intera cultura letteraria bizantina.

La parola è inoltre espressione del pragmatismo poetologico degli antichi: è la performance giambica, in particolar modo, che si sostanzia nel ripristino dell’ἡσυχία turbata e nel mantenimento dell’ordine sociale, e si serve a questo fine di un correttivo infallibile, che prevede spesso la cooperazione di ψόγος e αἰσχρολογία.12

In effetti Michele sembra inserirsi in una vera e propria disputa fitologica, con l’intento di ristabilire la corretta gerarchia fra le piante e di rettificare la prospettiva distorta di chi non riconosce l’indubbia primazia del fico, mettendo così in discussione uno stato di cose ritenuto, almeno da Michele, incontestabile (vv. 14-20). Inoltre l’ἡσυχία, intesa come pratica del silenzio, riveste un ruolo di assoluta preminenza nel pensiero di Pitagora, non a caso insistentemente rievocato da Michele (vv. 122, 169-170; 174, 178-182, etc.), dove si configura come un esercizio di rigoroso disciplinamento degli istinti e di purificazione interiore: una vera e propria pratica ascetica che imponeva ai novizi dell’eteria pitagorica, i cosiddetti acusmatici, un lustro di pace (ἡσυχία) e di assoluto silenzio.13 Ed è proprio questa dimensione spirituale che diventa centrale a Bisanzio, dove il termine assume una specifica connotazione monastica e teologica, che qui Michele senz’altro riecheggia. L’esperienza del silenzio come via privilegiata della comunicazione con Dio è frequentemente elogiata nelle Scritture, specie dai profeti (cf., per es., Is. 30:15; Hos. 2:16 e 3:13; Hab. 2:20; Soph., 1:7; I Reg. 18 e ss.), e il concetto di ἡσυχία diventa nevralgico nell’itinerario ascetico bizantino almeno a partire da Basilio di Cesarea (cf. Ep. 2 e 14) e da Giovanni Climaco, per poi addivenire, attraverso la riflessione di Simeone il Nuovo Teologo, alla grande stagione esicastica palamita del XIV secolo.14

In Giovanni Climaco il termine ἡσυχία designa in modo specifico la vita eremitica e contemplativa, la sola in grado di propiziare la comunione dell’uomo con Dio (cf., per es., Scala Paradisi, XXVII, PG 88, 1097 AB e 1112 C): non è dunque un caso che nella prima sequenza del poemetto il fico venga elogiato, nel quadro dell’aretalogia mista cristiano-pagana che lo vede qui protagonista, come simbolo della vita contemplativa: sembra andare in questa direzione il riecheggiamento dell’episodio evangelico di Natanaele (v. 11), l’allusione al pabulum spiritale cui solo i θεάμονες ἄνδρες possono attingere (v. 13), l’invito mediato al distacco dal corpo e dalla materia (vv. 12-13), l’insistenza sul campo semantico della vista profetica (vv. 12, 14, etc.) e il vagheggiamento simbolico dell’ombra ristoratrice della pianta (vv. 19-20). Mi pare, pertanto, di cogliere nella prima parola del poemetto l’allusione a una specifica direttrice tematica che si svilupperà diffusamente nei suoi primi versi.15

La plurivocità della parola si sfaccetta ancora di più quando si consideri la sua polivalenza sintattica: il genitivo, soggettivo e oggettivo al tempo stesso, da una parte esprime la predisposizione agente della tranquillità del poeta, che gli consente di partorire il poemetto, un lusus serio-comico incentrato sul fico; dall’altra esprime il fine a cui tende l’ideazione dell’opera, che da prodotto passivo diventa fonte di tranquillità. Nel primo caso, dunque, l’epillio si pone come meditazione di secondo grado (o meditazione di meditazione), e la parola iniziale del carme istituisce una sorta di corrispondenza omologica fra la disposizione d’animo dell’autore e uno dei temi che, più o meno esplicitamente, soggiacciono all’intera opera; nel secondo caso, invece, il poemetto obbedisce a un’istanza di tipo pastorale e diventa strumento di parenesi spirituale, che invita all’affinamento dell’anima attraverso la contemplazione.

ἄθυρμα: come attestano i repertori lessicografici antichi, è un sinonimo di παίγνιον, che corrisponde semanticamente al latino nugae. Il termine, che indica nella tradizione letteraria greca componimenti di tono ludico e leggero, assume qui una specifica risonanza estetica, qualificando il poemetto come una sorta di passatempo erudito; la portata ricreativa del termine è tuttavia corretta e integrata dal riferimento alla fatica e alla serietà dell’impegno compositivo, che configura sì un lusus letterario, ma dai risvolti decisamente serio-comici. È inoltre rimarchevole lo sforzo di armonizzazione messo in atto da Michele: i due campi semantici espressi rispettivamente dai termini ἄθυρμα (v. 1) e πόνημα - σπουδάζω (vv. 3-4) sono spesso legati da un rapporto oppositivo, che nondimeno viene qui riassorbito nell’ottica di una piena compenetrazione. Sugli ambiti d’uso, invero molto eterogenei, del termine παίγνιον nella tradizione letteraria greca anteriore a Filita, cf. Pseudo Erodoto, Vita Homerica 24; Pind., Ol. 1.16; Plat., Leggi 7. 816e; Gorgia, Encomio di Elena 82 B 11.21 D-K; Ateneo, 14.638d.

v. 5: Οὐδέ γε αὖ ἱερῇ πολιῇ καθάπαξ ἀπεοικὸς: l’espressione è proverbiale e risale alla corrispondenza apocrifa di Libanio con Basilio di Cesarea (Ep. 23.1, pp. 595-596 Foerster). L’immagine, che gioca su un efficace sostituzione metonimica (la canizie per la vecchiaia), ebbe una discreta fortuna in età bizantina (cf. Nicet. Magist., Ep. 28 p. 125.10-11; Ep. 31 p. 131.28-29 Westerink; Filagato da Cerami, Τῆς Χαρικλείας ἑρμηνεία 35-36; Teodoro Prodromo, carm. hist. LIX.257; Ps-Teodoro Prodromo, carm. polit. I.11). L’immagine della vecchiaia che non si sottrae agli scherzi, purché questi abbiano una qualche serietà, adempie qui una funzione autoapologetica e, come già in Filagato, serve a giustificare l’accostamento a temi apparentemente irrilevanti o sconvenienti, ma che in realtà costituiscono il pretesto occasionale per l’approfondimento di motivi specificamente cristiani e teologici.

v. 7: ὧ φίλος: è un dedicatario generico che incarna, considerata la densità allusiva del poemetto, la platea culturalmente avvertita dei περιττοί o λόγιοι ἄνδρες, per cui cf. Michele Psello, Encomium in Symeonem Metaphrastam, Kurtz-Drexl, 2, pp. 94-107.16

v. 8: Κόσμον ἐμῶν προθύρων, συκέην σκιόεσσαν, ἀείδω: il verso accoglie alcuni stilemi epici tipicamente proemiali che Michele, esponente di punta del circolo di Eustazio, mostra di padroneggiare con grande disinvoltura. Sull’affetto e la riconoscenza manifestati da Michele per il suo maestro cf. Mich. Chon., Ep. 2.4-5; 4.7-8; 6.9-10; 7. 11; 16.20-21; 36.50-51, Kolovou 2001 e Mich. Chon., Mon. Eust. Thess., Lampros 1879-80, pp. 283-306.

L’uso del verbo ἀείδω è canonico nei proemi epici; l’argomento del canto è inoltre espresso da un complemento oggetto che, dislocato all’inizio del poema, assume un profondo risalto tematico e strutturale, preannunciando iconicamente l’organizzazione concentrica degli eventi intorno al tema principale della narrazione (v. 8). L’accusativo è però qui, per così dire, endiadico, poiché riproduce uno schema del tipo “variazione/tema”: il sintagma appositivo (κόσμον ἐμῶν προθύρων), che costituisce una variazione contestuale generata dal punto di vista del soggetto parlante, precede l’enunciazione del tema principale (συκέην σκιόεσσαν) e infrange il principio dell’obiettività epica, ridirezionando l’attenzione del lettore sulla trama di relazioni intertestuali e simboliche che il fico suscita nella persona loquens, che invece di essere epicamente estromessa dalla narrazione, ne diventa elemento privilegiato e nodo focale. Attraverso il possessivo ἐμῶν e l’uso del verbo alla prima persona singolare (v. 8), la consistenza granitica dell’oggetto epico si stempera e viene ricondotta all’universo percettivo e speculativo del poeta, che ridisegna l’oggetto epico attraverso il filtro della propria cultura, anche letteraria, fino quasi a trasfigurarlo attraverso un insistito simbolismo mistico di matrice cristiana. La descriptio del fico sarà dunque il tema precipuo di buona parte del poemetto, che fin da ora assume le sembianze di un epillio ecfrastico: un genere che ebbe fra i suoi maggiori rappresentanti bizantini Pamprepio e Arsenio di Corfù, ai quali è verosimile che Michele si sia ispirato in virtù del tenore spirituale dei loro poemetti, che tuttavia non esclude, anzi caldeggia, l’inserzione di elementi tipicamente classici e pagani.17

v. 9: οὕνεκ’ ἀγάλλει ὀπωρινὸν ἡμετέρην γε θυωρὸν: Michele rinvia a una pratica sacrificale veterotestamentaria attesta in Dt., 26.2-11, dove i fichi sono offerti al Signore come primizia del raccolto. Allo stesso tempo l’uso del termine θυωρόν evoca le abitudini cultuali degli antichi, che erano soliti consacrare agli dèi tavole per le offerte, come in Call., H. in Dian. 134-135. Considerata la dimestichezza che Michele ha con l’opera di Callimaco,18 mi sembra di poter riscontrare una concordanza implicita con il luogo appena citato: nell’inno di Callimaco la dea Artemide propizia le messi di chi la veneri con sacrifici; allo stesso modo, nel sistema simbolico e concettuale del cristianesimo antico, capillarmente recepito da Michele, il fico e i suoi frutti rappresentano abbondanza e prosperità: alla “satura lanx” delle offerte consacrate ad Artemide, dea fecondatrice, si sostituisce il fico, che diventa primizia sacrificale eccellente e testimone del favore di Dio. Michele adotta, in sostanza, un meccanismo eulogico di esclusività, che fa del fico e dei suoi frutti quanto di meglio possa esistere in natura.

ὀπωρινὸν: l’aggettivo, che ha un’estensione semantica estremamente varia e può indicare, a seconda dei casi, la stagione estiva, primaverile o autunnale, allude qui alla tarda estate, periodo in cui giunge a maturazione la varietà di fico commestibile più nota: la ficus carica, in greco συκῆ. L’associazione fra il frutto e il suo periodo di maturazione è attestata in Paus., 1.37.2, in cui il periegeta trascrive il testo dell’epigramma iscritto sulla tomba di Fitalo, che ricevette la pianta di fico da Demetra come dono per l’ospitalità che le aveva concesso. Sulle varietà del fico domestico, differenziate per il periodo di fruttificazione, cf. Thphr., CP. 2.9.5 ss.

v. 10: ἀμφότερον καρπῷ γλυκερῷ, πετάλων τε καλύπτρᾳ: il termine καρπός ha nella Bibbia una spiccata connotazione simbolica. La sua abbondanza è garanzia di pace e prosperità; il germogliare del fico e l’offerta del suo frutto esprimono l’avvento del tempo messianico e la benedizione di Dio; l’immagine del fico primaticcio, particolarmente dolce e gustoso, sottende il tema dell’alleanza di Dio con gli uomini (Hos. 9:10-16) ed è metafora dell’uomo giusto e incorrotto (Mi. 7:1). Inoltre la dolcezza del fico rappresenta, specie nel Nuovo Testamento, la bontà delle azioni umane: la produzione di frutti buoni o cattivi evidenzia la qualità dell’albero (Mat. 3:8-10; 7:16-17; Lu. 6:43) e la mancata fruttificazione ne provoca spesso l’abbattimento (Mat. 7:19; 15:13; Lu. 13:6-9; EIu. 12). L’allusione simbolica a questo stato di letizia ha una funzione protrettico-pastorale che si concreterà pienamente, innestandosi su uno spettro di immagini diffusamente allegorico, nel successivo riferimento al profeta Natanaele e a chi, come lui, all’ombra della pianta coglie i frutti della vita contemplativa. La menzione congiunta nello stesso verso della dolcezza del frutto e del riparo che possono offrire le sue foglie è senz’altro voluta, poiché anticipa la narrazione del peccato originale di Adamo ed Eva (vv. 89-98). Inoltre, il fatto che qui καρπός indichi specificamente il fico potrebbe essere la spia della conoscenza di una versione alternativa del racconto del peccato originale, in cui il frutto proibito di cui si cibarono i primi abitanti dell’Eden sarebbe stato proprio il fico (vv. 91-92).

v. 11: πρὸς δ’ αὖ καί τι νόῳ δεδαηκότι δῶκεν ὄνειαρ: è qui adombrato l’episodio giovanneo di Natanaele sotto il fico (Io. 1.45:50). La reminiscenza neotestamentaria è in realtà innescata da una perifrasi che qualifica Natanaele come sapiente: Michele sembra qui recepire l’interpretazione rabbinica, sviluppata anche dai Padri della Chiesa, che associa lo stare sotto il fico con lo studio della Legge e, fuor di metafora, con la vita contemplativa:19 si tratta di un’interpretazione che concorderebbe peraltro con i versi successivi, in cui l’εὐλογία del fico diventa esaltazione del βίος θεωρητικός.

Θεάμονες ἄνδρες: sono gli uomini che vedono attraverso gli occhi del cuore, coloro che si allontanano dalla materia sensibile per contemplare Dio. Sembrano qui evocate le tappe dell’itinerario ascetico bizantino: la μέθεξις, intesa come compenetrazione mistica dell’uomo con Dio, deve infatti essere preceduta dal movimento della μετάνοια, che consiste in una conversione salda e autentica ai beni dello spirito (vv. 110-112), a cui si accompagna inoltre un profondo disprezzo dei beni mondani.20

L’avverbio οἷα, che funge qui da pseudo epigra, stabilisce poi un legame simbolico fra la teologia mistica della visione, qui ellitticamente accennata, e l’immagine biblica del fico, che, come abbiamo già rilevato, possiede in questi versi una specifica coloritura allegorica: il paragone è infatti fra Natanaele sotto il fico e gli uomini che si votano alla contemplazione di Dio, spogliandosi della materia. È emblematica, a tal proposito, la dottrina spirituale di Simeone il Nuovo Teologo, per cui la conversione, stato ineludibile per accedere alla μέθεξις, si fonda su una sorta di speranza escatologica derivante dalla fede,21 e, sulla scorta di questo assunto, essa è qui concretamente sostanziata dall’immagine del fico, che nell’Antico Testamento evoca spesso l’imminenza di quel tempo escatologico-messianico (Mich. 4:4; Zach. 3:10) che solo l’ἀνήρ θεάμων sa cogliere: allo stesso modo nell’episodio giovanneo Gesù, annunciando a Natanaele di averlo visto sotto il fico, sembra voler esprimere, attraverso un codice figurativo tipicamente veterotestamentario, l’arrivo del tempo messianico, che non a caso muove il pio ebreo a un repentino atto di fede in Cristo.22

ὕλης ἀπονόσφι: il termine ὕλη ha in greco il significato primario di foresta, a cui si aggiungerà in seguito, con Aristotele, quello marcatamente filosofico di materia, poi ripreso e ulteriormente sviluppato dai neoplatonici, che lo usarono spesso in contrapposizione al νοῦς, il principio intellettivo ipostasi dell’Uno. I cristiani d’Oriente recepirono poi il sistema dualistico-oppositivo dell’ontologia neoplatonica e adottarono il termine in un’accezione per lo più peggiorativa, riferendolo spesso al corpo in quanto costituzionalmente inferiore all’anima. La contrapposizione qui delineata fra la vita contemplativa e i gravami della materia da cui è necessario affrancarsi per attingere ai beni dello spirito pare alludere alla dottrina spirituale di Evagrio Pontico che, nonostante fosse stata condannata nel 553 dal secondo concilio di Costantinopoli, continuò ad esercitare un influsso determinante sulla successiva tradizione monastica bizantina. Evagrio identifica l’uomo con l’intelletto e concepisce la spiritualità cristiana come un atto di smaterializzazione, di affrancamento da tutte le passioni (λογισμοί) che distolgono dalla contemplazione di Dio (cf. Praktikos 1.6-14, A. Guillaumont-C. Guillaumont): in questi primi versi, dunque, Michele rievoca l’antropologia origeniana e platonica di Evagrio, in particolar modo attraverso l’accostamento antitetico di νοῦς e di ὕλη (vv. 11-12).23

ἀπονόσφι: avverbio omerico che si accompagna al genitivo, a cui è quasi sempre posposto. Esso indica, unitamente a ὕλης, quell’estraniamento dalla materia e dal mondo che solo può consentire di raggiungere il fine ultimo della vita cristiana: la partecipazione in Dio (θέωσις), resa possibile dalla deificazione dell’umanità in e attraverso Cristo.24

v. 13: ἀμβροσίην κατέδουσι σπῶσί τε νέκταρος ἄχνην: sono qui elencati i cibi dello spirito, in cui mi pare di poter individuare un’ulteriore consonanza con la dottrina di Simeone il Nuovo Teologo e con la teologia monastica della contemplazione. In Simeone, infatti, ricorre l’immagine dei cibi celesti di cui si possono nutrire solo coloro che si siano purificati, attraverso la μετάνοια operata dallo Spirito, dalle incrostazioni della materia (cf., per es., Simeone il Nuovo Teologo, Orationes ethicae 3.1.540-553 Darrouzès).

L’immagine del nettare e dell’ambrosia è frequente anche nella letteratura agiografica bizantina, greca e magno-greca, per indicare l’affrancamento dai beni terreni e la pienezza della vita contemplativa (cf., per es., Vita Sancti Athanasii Athonitae 33.32 Noret; Vita sancti Fantini iunioris 21, p. 426 Follieri). I cibi divini sono quindi il simbolo di uno stato di grazia che Evagrio Pontico definisce ἀπάθεια, e cioè la meta a cui deve condurre il metodo spirituale (πρακτική) che purifica ed eleva l’anima (cf. Evagrio Pontico, Praktikós 1, pp. 39 e 98 A. Guillaumont-C. Guillaumont).25

Occorre però rilevare che il motivo, che ebbe così larga diffusione nel Cristianesimo d’Oriente e Occidente, è di ascendenza prettamente classica: esso risale infatti alla metafora platonica dell’auriga che, dopo aver condotto l’anima in cielo, ristora i suoi cavalli con ambrosia e nettare (Plat., Phaedr. 243e-257a). L’immagine, benché culturalmente allogena, fu ben presto risemantizzata dai cristiani per indicare i beni dello spirito, e in questa funzione si accostò a quella più “ortodossa” del latte e del miele, per cui cf., per es., Clemente Alessandrino, Paedagogus 1.6.45.1.

vv. 14-20: viene in questi versi rievocato l’episodio veterotestamentario di Ion. 4, in cui Giona si ritira in una zona arida a est della città di Ninive e si rallegra dell’ombra di una pianta cresciuta spontaneamente. È utile rilevare che un episodio per certi versi analogo ricorre anche in 1 Reg. 19: 4-5, in cui Elia, dopo l’uccisione dei profeti di Baal, trova ristoro sotto un albero. Il riferimento biblico introduce una vera e propria σύγκρισις fra le piante della zucca e del fico, un confronto che vede Michele schierarsi nettamente a favore della seconda.

Θεσπεσίῳ ὑποφήτῃ: si tratta di Giona, il profeta ispirato da Dio. Il termine ὑποφήτης, di uso già omerico, designa la figura dell’indovino, dell’interprete di presagi o anche del poeta in quanto sacerdote delle Muse. La parola, associata all’aggettivo θεσπέσιος, per lo più riferito agli evangelisti o agli angeli, costituisce qui una callida iunctura, poiché combina un attributo tipicamente neotestamentario a un sostantivo di antica tradizione epica, che passa così ad indicare la figura del profeta veterotestamentario.

Κολόκυντα: è la pianta di zucca sotto cui trovò riparo Giona. Essa è nominata in Arist. HA, 616a22 e descritta in Teofrasto, dove è accostata ad altre due specie affini, σίκυος e σικύα, che appartengono tutte alla famiglia delle cucurbitacee (cf. H. Pl. 1.13.3). A riprova della sua relativa diffusione nel mondo greco e mediterraneo, pare che a Sicione la pianta godesse di un culto particolare, di cui rimaneva traccia nel santuario di Atena Kolokasia, in cui il nome della pianta è evocato dall’epiclesi cultuale della dea (cf. Athen. 3.72b). Sull’identità della pianta che compare nell’episodio di Giona e sul modo corretto di tradurre la parola ebraica che la indica si manifestarono fin dall’antichità posizioni contrastanti. L’edizione dei LXX ha σικυόν, che qui Michele accoglie disambiguando ulteriormente attraverso un sinonimo più comune e perspicuo: κολόκυντα. L’edizione Otto corregge invece in κικυόν (ricino), ritenendo questa resa più aderente al testo ebraico, che ha qiqeion. La querelle vide singolarmente impegnato Girolamo (Su Giona 4.6) che, dopo aver accuratamente descritto il qiqeion e aver sostenuto che non esiste in latino una parola corrispondente, traduce con hedera, accogliendo la traduzione che del termine avevano dato Aquila, Simmaco e Teodozione, ma allo stesso tempo suscitando la reazione dei fedeli, nonché quella ironica e stizzita di Rufino, Apologia contro Girolamo 2.39.

Αὐτομάτη: un tipo di zucca selvatica (κ. ἀγρία) molto simile a quella descritta qui da Michele si trova in Diosc., De materia medica 2.134.

Λίην πλατύφυλλος: l’aggettivo è associato a piante di grandi dimensioni, per cui cf., per es., Thphr., HP 3.8.2, in cui è riferito al cerro (αἰγίλωψ).

Σκιερὸν σκέπας: si noti l’insistenza sui temi del ristoro e dell’ombra, che servono a stabilire un legame tematico e comparativo con l’episodio di Natanaele: σκιερὸν sta a σκιόεσσαν (v. 8), implicitamente riferito anche al fico di Natanaele, e σκέπας a ὄνειαρ (v. 11).

2. La rivelazione epifanica di Theanó

vv. 99-102: il periodo è sintatticamente arduo: si noti anzitutto la divaricazione in iperbato della preposizione πρός e degli accusativi da essa retti, che a loro volta costituiscono probabilmente un nesso endiadico, complicato peraltro dall’occorrenza di un ἅπαξ assoluto di significato incerto (φιλοτοῖον); non è poi chiaro con quale sostantivo si accordino il participio del v. 101 (κομόωντα) e l’aggettivo in funzione predicativa del v. 102 (ἀζαλέον): potrebbe tuttavia trattarsi di una struttura brachilogica che sottintende il riferimento, logicamente perspicuo, a un referente arboreo, con buona probabilità l’albero di fico al centro di questa sezione del poemetto. I versi, benché soffrano di una certa opacità sintattica, alludono tuttavia con sufficiente chiarezza all’episodio neotestamentario della maledizione del fico (cf. Mar. 11.12:14 e Mat. 21. 18:19).26

vv. 105-123: l’apparizione in sogno di Theanó sotto forma di albero di fico, preannunciata fin dall’inizio del poemetto (vv. 1-4), è esemplata sul modello diffuso della visita miracolosa di un morto che riprende vita.27 Occorre inoltre considerare che spesso sono i santi che si servono del sogno per comunicare con i loro discepoli, come si racconta in un episodio della Vita di Andrea il Folle (Cesaretti, 2014, pp. 185-191): il ricorso al contatto onirico sembra dunque riproporre un’analoga distribuzione di ruoli fra Theanó e Michele.28

Quanto al contenuto, la rivelazione di Theanó è piuttosto enigmatica: essa si ispira al motivo del sogno allegorico che, particolarmente diffuso nella narrativa greca tardo-antica e medievale, adempie la funzione di chiarire indirettamente alcuni aspetti della realtà, di cui fornisce un’efficace chiave interpretativa: sulla tipologia del sogno allegorico nella narrativa bizantina cf., per es., Digenis Akritis, G II 140-150, pp. 32 e 262 Jeffreys = E 321-329; Libistro e Rodamne 2825-65, p. 366 Agapitos; Constantini Manassis Breviarium chronicum 1123-26, p. 64 Lampsides; Iliade bizantina 22-25; 33 e 39, pp. 23-24 Nørgaard-Smith.

Non è infatti un caso che, subito dopo quest’intermezzo didascalico, la realtà si mostri a Michele nella sua essenza profonda, finalmente sciolta dal peso mistificante delle apparenze. L’oggetto reale che ha dunque suscitato l’esperienza onirica, e cioè il fico che adorna il giardino di Michele, si è in essa allegoricamente ristrutturato, come dimostra la seguente sezione di testo imperniata sull’interpretazione di quello stesso fico che, da realtà fenomenica, si è fatto ormai mero simbolo cristiano. A questo proposito è opportuno, tuttavia, considerare che l’eccesso di oscurità potrebbe dipendere da un rovesciamento parodico del linguaggio visionario: si tratterebbe allora di una detorsio in comicum in perfetto stile lucianeo, peraltro in linea con le enunciazioni programmatiche che dànno avvio al poemetto.29

Mette conto inoltre rilevare che il motivo del sogno, già classico e ampiamente frequentato dalla letteratura agiografica, ebbe una straordinaria reviviscenza proprio nel romanzo bizantino del XII sec. e potrebbe quindi denunciare lo stretto rapporto di Michele con la coeva letteratura profana e con la temperie culturale del suo tempo, che registrò un’altrettanta inedita fioritura delle discussioni erudite intorno alle teorie aristoteliche sul sogno.30

vv. 105-112: Theanó esordisce con un’affermazione apparentemente paradossale che, tuttavia, non tarderà a chiarirsi nella prospettiva allegorica della visione. I frutti non commestibili prodotti dal fico selvatico, appesi o innestati sui rami di un fico fruttuoso, si rivelano chiaramente come posticci, e pertanto non sarà loro concesso di insinuarsi surrettiziamente fra le fronde della trasfigurata Theanó (fuor di metafora nel raccolto del “contadino-fedele”), che potrà così agevolmente discernere, guidata dalla sapienza pitagorica, i frutti veraci da quelli fittizi. Sulla correlazione fra i frutti cattivi, o non commestibili, e l’azione fraudolenta dei falsi profeti cf. infra, n. vv. 111-112.

v. 106 ἐρινεὸς: Theanó allude alla tradizionale opposizione fra la συκῆ e l’ἐρινεὸς, il fico selvatico: la συκῆ è dono di Demetra e simbolo di incivilimento; al contrario, l’ἐρινεὸς è un inutile albero selvatico che produce frutti immangiabili, ed è spesso concepito, nella tradizione greca, come foriero di sciagure e di morte: cf. Teofrasto, H. Pl. 1.8.2; Id, 3.3.4; 4.14.4; Od. 12.103-104; Pausania 1.38.6, in cui in un luogo presso Eleusi, chiamato evocativamente Ἐρινεόν, Ade trascina con sé Kore nel suo regno sotterraneo; si consideri da ultimo Pausania 4.20.2, dove l’ἐρινεὸς simboleggia la distruzione della città dei Messeni.

ἀβρώτοις ἐπ’ ὀλύνθοις: il termine ὄλυνθος-ὄλονθος ha nella lingua greca un significato piuttosto incerto: Dioscoride (1.128) lo riferisce al fico selvatico; Teofrasto (H. Pl. 3.7.3) e Galeno (12.133), invece, lo ricollegano ai frutti, per qualche ragione inservibili, dell’albero coltivato; al contrario, Erodoto adotta il termine per indicare l’infiorescenza sterile del caprifico adoperata per fertilizzarne la corrispondente varietà domestica. Una tale oscillazione di significati lascia intendere che la coltura dell’ὄλυνθος, al centro peraltro di un articolato complesso mitico-cultuale nell’area della Calcidica, sia sostanzialmente estranea all’orizzonte culturale greco, come sembrerebbe suggerire anche il suffisso pseudo epig -νθος del termine.31

v. 108: οὐδὲ ῥέοντ’ ἀποβάλλω: potrebbe trattarsi di un’allusione ai fichi primaticci: cf. supra, n. v. 10.

v. 110: Σκέπτεό μοι σοφίης ἐξωτερικῆς ὀνέεσθαι: il riferimento alla sapienza esoterica, e specificamente a quella egizia e caldaica (v. 114), si annoda strettamente, nella rivelazione di Theanó, alla figura di Pitagora (v. 122), a cui furono attribuite, fin dall’età tardo-antica, pratiche e dottrine di natura mistico-teosofica: Ippolito di Roma, per es., rende conto del legame fra idee pitagoriche e pratiche occulte in Philosophumena 6.1. A ciò si aggiunge la testimonianza di Proclo, il quale afferma che Pitagora fu il primo ad apprendere i segreti degli dei, vale a dire la dottrina dell’armonia cosmica, e sostiene che Platone ereditò tale “scienza misterica” proprio dagli scritti pitagorici e orfici (Theologia platonica 1.25-26). I pitagorici erano altresì largamente noti per i loro poteri di vaticinio e per l’arte della cosiddetta divinazione geomantica (cf. Giovanni Damasceno, Expositio fidei 33.5-9).32

È interessante anche rilevare la centralità che assunse la figura di Pitagora proprio nella letteratura alchemica del XII sec., quando iniziò a circolare in Europa un testo, probabilmente tradotto dall’arabo, intitolato Turba philosophorum (Ruska, 1931): l’assemblea del titolo, convocata dallo stesso Pitagora, chiama a raccolta, fra gli altri, Anassimandro, Anassagora, Socrate e Platone, e si incarica di proclamare settantadue dicta riguardanti la combinazione dei quattro elementi e raffinate procedure di trasmutazione alchemica.33

Michele, dunque, sensibile forse alle sollecitazioni di questa letteratura, riecheggia alcuni aspetti dell’esoterismo pitagorico, ma si premura di incardinarli, attraverso il pronto riferimento al καρπὸν λόγου (v. 112), in una dimensione di pretta ortodossia religiosa.

vv. 111-112: ψευδοσύκων ἐξ ὀλύνθων / ὥς κεν ἑὸν καρπὸν βιότου τε λόγου τε φυλάσσοις: la metafora del frutto è ampiamente diffusa nel Nuovo Testamento per indicare la qualità delle azioni umane. Una fruttificazione abbondante e genuina significa aver accolto Cristo e i suoi insegnamenti; per converso, la produzione di frutti cattivi rende ben riconoscibile l’azione fraudolenta di falsi profeti (Mat. 7:15), falsi cristi (Mat. 24:24), falsi apostoli (2 Cor. 11:13), falsi fratelli (Gal. 2:4; 2 Cor. 11:20) e falsi dottori (2 EPe. 2:1). Theanó rievoca dunque le parole di Cristo, e invita Michele a distinguere i frutti veraci dello Spirito da quelli corrotti di chi predica ignorando Cristo. L’allusione alle Scritture è però curiosamente integrata dal riferimento alla sapienza (neo)pitagorica, che sola consente di discernere i frutti buoni da quelli cattivi.

καρπὸν βιότου τε λόγου: sui frutti dello Spirito cf. Gal. 5:22-25 e Simeone il Nuovo Teologo, Catecheses 9.374-382 Krivochéine-Paramelle. Sullo Spirito Santo come artefice dell’affrancamento dell’uomo dai desideri e dalle passioni mondane, tema peraltro insistito nella prima parte del poemetto, cf. Simeone il Nuovo Teologo, Capita theologica 3.60.2-8 Darrouzès.

vv. 113-114: Ὣς ὅ, τε Τεθμότης Ἱμέρων τ’ ἀνὴρ ἐφράσαντο Αἰγύπτου σοφίῃ Βαβυλῶνός τ’ ἐννεάσαντες: Theanó fa risalire la rivelazione di cui ha messo a parte Michele a due ignoti sapienti orientali che l’avrebbero anticamente istruita. Tuttavia, il riferimento all’Egitto e a Babilonia, cui si aggiunge la contestuale menzione di Pitagora, rende la veridicità di questi nomi altamente sospetta, e rappresenta forse il tentativo di creare due auctoritates fittizie eredi di un sapere esoterico di schietta matrice pitagorica. La formazione di Pitagora, in effetti, si svolge spesso, nella tradizione antica, proprio in Egitto e in Mesopotamia, specie in Caldea, i cui abitanti erano famosi per le loro abilità profetiche: è dunque verosimile che i suoi due discepoli, reali o presunti, ne abbiano voluto seguire le tracce. Si consideri inoltre che, secondo Erodoto, Pitagora fu iniziato ai misteri della matematica proprio dai sacerdoti egizi.34

Emerge ancora una volta con chiarezza la commistione di tratti ellenico-pagani con altri di marca spiccatamente cristiana: la rivelazione di Theanó fa appello, infatti, a Pitagora e a due suoi discepoli, reali o fittizi che siano; tuttavia il suo contenuto si staglia in un orizzonte culturale cristiano, e lo stesso Pitagora, invero, può essere citato solo perché il suo pensiero andò soggetto, nel corso dei secoli, ad un processo di cristianizzazione tanto pervasivo quanto efficace.

v. 115: Ἀλλὰ τὰ μὲν καὶ ἂν ἐξ ἑτέρης συκέης δρέψαιο: l’allusione a un altro albero di fico sembrerebbe sottendere lo stesso procedimento di duplicazione simbolica a cui è sottoposta la pianta in Efrem (Inni sul Paradiso 10, Lavenant-Graffin), dove essa è contemporaneamente albero della caduta, in cui si è trasfigurato Adamo, e albero di rifugio e verità: fuor di metafora, Cristo crocifisso.

v. 119: δρεπτὰ δὲ οἷς σοφίης ἐνὶ κήποις εἱλίσσονται: il giardino a cui qui si allude è senz’altro il paradiso terrestre, irrigato da una fonte d’acqua viva, intesa, fuor di metafora, come la sapienza che promana da Dio. Michele pare alludere a un’interpretazione tipologica dell’Eden che risale a Filone (Leg. 1.45; 1.63; Quaest. Gen. 1.12), secondo cui il paradiso è allegoria dell’anima fecondata dalla fonte della sapienza: in virtù di una simile interpretazione, Michele può reduplicare l’immagine estendendola a tutti coloro che attingono quotidianamente a quella fonte e colgono i frutti trascurati dagli insipienti.

v. 122: Πυθαγόρου νοεροῖο: metonimia per indicare gli insegnamenti di Pitagora. Il fitto simbolismo numerologico che sostanzia l’ἔκφρασις dei vv. 133-166 è difficilmente attribuibile a Pitagora, ma risente senza dubbio degli sviluppi ellenistici e tardo antichi del suo pensiero.35

La tradizione che fa di Pitagora uno stimato maestro risale a Isocrate (Busiris 29.1-5), nonché a Platone, che ne parla come di un’autorità indiscussa in fatto di educazione (Repubblica 10, 600.A-B).

Inoltre, già in età tarda, il ricordo di Pitagora si ammantò di una particolare aura mistica, che sarà la premessa della sua progressiva cristianizzazione: Sesto Empirico lo considerava più un dio che un uomo (Adversus mathematicos 4.1-7), ed egualmente Giamblico sosteneva, senza nutrire alcun dubbio, che Pitagora fosse un dio, nella fattispecie Apollo, inviato sulla terra per insegnare a coloro che ne fossero stati degni il modo di raffinare se stessi e partecipare della sua invidiabile condizione divina (De vita pythagorica 6.30.14-22).

Si fece quindi gradatamente largo la tendenza a rafforzare le potenzialità religiose del pensiero di Pitagora, sia in senso giudaico che cristiano: Aristobulo sostiene, per es., che Pitagora abbia attinto all’Antico Testamento per l’elaborazione del proprio sistema filosofico, e afferma inoltre che egli, così come Socrate e Platone, si ispirò al modello di Mosè, emulandolo con scrupolo (fr. 2b Denis); in termini analoghi si esprimono anche Flavio Giuseppe (Contra Apionem 164 e 165) e Origene (Contra Celsum 1.15). Clemente Alessandrino, che ammira profondamente i suoi insegnamenti, ritiene che egli sia stato ispirato dagli Ebrei, se non addirittura dallo stesso Ezechiele, e si dice personalmente conquistato dalla clemenza che Pitagora dimostrò verso i più umili degli animali, gli agnelli, che evocano in lui una prefigurazione di Cristo (Stromata 1.15.70 e Protrepticus 6). Eusebio di Cesarea, proseguendo in questo sforzo di cristianizzazione, paragona Pitagora a Mosè, e riconosce che egli fu tenuto in alta considerazione proprio in virtù della sua sapienza, al punto tale da essere stato d’esempio addirittura per Platone (Constantini imperatoris oratio ad coetum sanctorum 17.1-2).36

vv. 124-125: Θεανὼ / πυθαγορείη: sull’identità di Theanó, presentata nelle fonti alternativamente come moglie, figlia o discepola di Pitagora, cf. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi 2.8.42; Giamblico, La vita pitagorica 146; Porfirio, Vita di Pitagora 4; Fozio, Biblioteca 149 e, sulla famiglia di Pitagora, Guthrie 1988, pp. 152-153.

Si tratta della donna che più si distinse tra le altre pure ammesse nella scuola di Pitagora: a lei sono attribuite opere Sulla pietà, Sulla virtù, Su Pitagora e una silloge di apoftegmi pitagorici. Le è inoltre attribuito un corpus di nove lettere, una parte del quale pubblicato per la prima volta nel 1570 da H. Estienne, insieme con la lettera A Cleareta di Melissa e a quella A Phyllis di Myia. Di queste nove lettere tre (quelle indirizzate a Eubula, a Nicostrata e a Callisto) sono con buona probabilità autentiche, mentre le altre sono evidenti testi pseudoepigrafici.37

v. 125: ἣ γλῶσσαν τάμεν οἷσιν ὀδοῦσιν: l’episodio, probabilmente leggendario, vuole alludere all’intransigenza di Theanó pitagorica, che a quanto pare prese alla lettera il precetto della ἐχεμυθία: il silenzio era infatti considerato il mezzo privilegiato dell’affinamento spirituale, e alla virtù della moderazione spesso allude Theanó nelle sue lettere. Sul quinquennale silenzio che Pitagora imponeva ai propri discepoli cf. Luciano, Hermotimus 48; Giamblico, De Vita Pythagorica 16.68; Eusebio di Cesarea, Historia ecclesiastica 2.4 e 4.7, in cui si narra che anche Filone di Alessandria ottemperò al rigido precetto pitagorico.

v. 132: νόος δ’ αὖ ὦρτο θεωρός: l’apparizione di Theanó si configura qui più specificamente come θεωρία, e cioè come la contemplazione di una visione divina. Mette conto rilevare come il termine si contrapponga spesso, negli scritti agiografici, alla voce φαντασία, intesa nell’accezione negativa di miraggio demoniaco.38

Testo greco delle sezioni commentate e traduzione

Θεανώ

[Il testo qui riprodotto si basa sull’edizione critica degli scritti di Michele
Coniata messa a punto da S. P. Lampros, 1879-80]

I. Proemio e προθεωρία serio-comica

Ἡσυχίης τόδ’ ἄθυρμ’ ἐμὸν ἠδέ τε λέσχη μακρὰ (1)
ἀνδρὸς ἀκηδιόωντος ἀήματι νυσταλόεντι,
οὐ μὰν ἄμουσον πάμπαν ὅλον τὸ πόνημα πέπαικται,
ἀλλ’ ἐπιμὶξ τῆς παιδιῆς ἔσθ’ ἃ καὶ ἐσπούδασται.
Οὐδέ γε αὖ ἱερῇ πολιῇ καθάπαξ ἀπεοικὸς (5)
οὔνομα καὶ Θεανὼ κικλήσκεται, οὔνομα σεμνὸν
αί κε σὺ τοῦτο γνώσεαι, ὧ φίλος, αὐτίκ’ ἐπελθών.
Κόσμον ἐμῶν προθύρων, συκέην σκιόεσσαν, ἀείδω,
οὕνεκ’ ἀγάλλει ὀπωρινὸν ἡμετέρην γε θυωρὸν,
ἀμφότερον καρπῷ γλυκερῷ, πετάλων τε καλύπτρᾳ, (10)
πρὸς δ’ αὖ καί τι νόῳ δεδαηκότι δῶκεν ὄνειαρ
οἷα θεάμονες ἄνδρες ὕλης ἀπονόσφι συλῶντες
ἀμβροσίην κατέδουσι σπῶσί τε νέκταρος ἄχνην.
Εἰ γὰρ χάρμα μέγ’ ὤφθη θεσπεσίῳ ὑποφήτῃ
αὐτομάτη κολόκυντα φυεῖσα λίην πλατύφυλλος (15)
οὕνεκά οἱ κεφαλῇ σκιερὸν σκέπας ἀμφετάνυσεν,
τίς κεν ἐπιτρύζων νεμεσήσῃ συκῆς ἀοιδῇ,
αἴ κεν μὴ κολοκύνταις τἄνδον φάεα λημῶν
οὐχ ὁράα κολοκύντης ὅσῳ κράδη περίεστιν
ἔν τε μελιχρῷ καρπῷ ἐν ταναῇ τε σκιῇ. (20)

Theanó

Questo mio rasserenante svago e il lungo parlare (1)
di un uomo che languisce fra i vapori del sonno
è frutto di un’opera scherzosa e non del tutto priva di grazia poetica,
che anzi mescola il serio con il faceto.
Né in modo del tutto sconveniente per la sacra vecchiaia (5)
sarà invocato anche il nome di Theanó, nome venerando
che tu, amico mio, potrai apprendere non appena vi ti accosterai.
Il vanto del mio atrio, il fico ombroso, canto,
giacché onora la nostra mensa estiva,
sia per il suo dolce frutto che per il velame dei suoi petali; (10)
inoltre diede ristoro al sapiente
proprio come gli uomini che, votandosi alla contemplazione e astraendosi dalla materia
si cibano di ambrosia e suggono la schiuma del nettare.
Ma poiché fu considerata dal vate divino fonte di grande gioia
la zucca selvatica dalle ampie foglie (15)
che gli stese sopra la testa un riparo d’ombra,
qualcuno potrebbe gracidare adirato contro il canto del fico,
purché, però, gli occhi del cuore, pieni di cispa,
non vedano di quanto il fico sopravanza la zucca
per il frutto dolce come il miele e la lunga ombra. (20)

II. La rivelazione epifanica di Theanó

Ὣς μὲν μυθοπόλοι τόδε δένδρον ἐσεμνώσαντο,
αὐτὰρ ἐγὼ λογίων πυθόμην, ἐμὸν οὖας ὑποσχὼν,
ὡς ἄρ’ ἐπ’ Ἀντολίης θεὸς ὄρχατον ἐξεπόνησεν,
χρῆμά τι δενδρῆεν πάσαις χαρίτεσσι μεμηλὸς,
παμφορίῃ τ’ ἀθανάτων καρπῶν βεβριθὸς αἰεὶ, (85)
τοὺς οὐκ ἐς τόδ’ φημέροις ἀνδράσι γευστοὺς ἴδμεν,
οὐδὲ μὲν οὐνόματ’ ἔκλυέ τις ἅ γ’ ἕκαστα καλοῖτο,
οἴης δ’ οὔνομα συκῆς κεῖθεν ἀφίκετο δεῦρο,
ἣ καὶ πρωτογόνους ἑοῖς ἀμφέζωσε πετήλοις,
μὴ μελέων σφίσιν αἴσχεα παρφαινοίατο γυμνά. (90)
Ἦ που καὶ βλύσατ’ οἰκτροῖς μελιηδέϊ χυμῷ
πευκεδανήν γε παραιβασίης θανατώδεα γεῦσιν.
Οὕτω κείνων ἀκηράτων ὀρχάτων ἐξέφυ συκῆ
γηγενέας τε μόνη ἐλεαίρουσ’ ἀμφεκάλυψεν.
Ἔνθεν τοι φιλέω σκιερὸν γλυκερόν τε τόδ’ ἔρνος, (95)
ὅττι γε καὶ στυγέειν κακομηχανίην με διδάσκει,
ἰνδάλλουσ’ αἰεὶ περιάμματα φυλλιόωντα
οἷάπερ Ἄδαμος Εὖά θ’ ὑπερράψαντο ἀλεῖται.
Πρὸς δέ μ’ ἐγείρει παμφορίη ἀρετῆς ἐρατεινῆς
ἑστίαν φιλοτοῖον ’ϊν θεῖον ἄνακτα (100)
μήποτ’ ἀρασσάμενος φύλλοισι μόνοις κομόωντα,
ἀζαλέον θήσει, εἴτ’ ἐκταμέειν με κελεύσῃ.
Ταῦτ’ ἀναπεμπάζειν ὑπονύττει μνημοσύνησι.
Ναὶ μὴν καὶ τάδε μοι δοκέω λαλεούσης κλύειν.
"Ὦ πέπον οὐχ ὁράας ὅσον εἰςφορέει μοι ὄνειαρ. (105)
ὠλεσίκαρπος ἐρινεὸς ἀβρώτοις ἐπ’ ὀλύνθοις.
Τῶνδε γὰρ αὕτως ἀναπτομένων ἐπ’ ἐμοῖς ὄζοισι
καρπὸν ἔγωγε πεπαίνω, οὐδὲ ῥέοντ’ ἀποβάλλω
ταῖς φύσιος πυκναῖς ὑποθημοσύνῃσιν ὁμαρτῶν.
Σκέπτεό μοι σοφίης ἐξωτερικῆς ὀνέεσθαι, (110)
τόσσον ὅσον περ ἔγωγε ψευδοσύκων ἐξ ὀλύνθων,
ὥς κεν ἑὸν καρπὸν βιότου τε λόγου τε φυλάσσοις.
Ὣς ὅτε Τεθμότης Ἱμέρων τ’ ἀνὴρ ἐφράσαντο
Αἰγύπτου σοφίῃ Βαβυλῶνός τ’ ἐννεάσαντες.
Ἀλλὰ τὰ μὲν καὶ ἂν ἐξ ἑτέρης συκέης δρέψαιο· (115)
ξυνὰ γὰρ ὅσσαπερ ὤπασε πάσαις φύσις ξυνή·
ἅττα δ’ ἐγὼ παρὰ πυθμέν’ ἐμῷ κεύθουσ’ ἐλελήθειν,
οὐ τρόφιμ’ ἀγροιώταις, νήϊσιν οὐκ ἐπίοπτα,
δρεπτὰ δὲ οἷς σοφίης ἐνὶ κήποις εἱλίσσονται,
ἐξ ἐμέθεν τρυγόων μόνης ἄμβροτον εἶδαρ ἔδοιο. (120)
Ἀλλὰ φράζεο πῶς συκάσαις ἂν θείην ὀπώρην,
χρὴ δέ σε μεμνῆσθαί πῃ Πυθαγόρου νοεροῖο.
Χρειὼ γάρ τοι ἰδμοσύνης κείνου διφόωντι."
Ὧδε μὲν ἔννεπε καὶ σιγόωσά περ ἅπερ Θεανὼ
πυθαγορείη, ἣ γλῶσσαν τάμεν οἷσιν ὀδοῦσιν, (125)
χαῖρε δ’ ἐμὸς νόος ἐσθλαῖς ταῖσδ’ ὑποθημοσύνησι.
Ὡς δὲ θεμέθλων ἢ φρεάτων ἢ ἁλωῆς σκαπτὴρ
κόψε μακέλλῃ γῆς ποτε κόλπους, ἅμα δὲ νέρθεν
οὔατα βεβλήκει ἑρμαίου ἄγγελος ἠχὼ,
γήθησεν δ’ ὃ τύχης ἐσθλῆς δώροις ἐπικύρσας, (130)
καί τε μάκελλαν ἐπισπέρχων πρόφρων ἀνορύττει,
ὣς κραδίη μοι χαῖρε, νόος δ’ αὖ ὦρτο θεωρός.

Così gli inventori di miti onorarono quest’albero,
ma io venni a sapere dalle parole delle Scritture, a cui tesi le mie orecchie,
che in Oriente Dio creò un giardino,
un’opera alberata che attira ogni grazia,
sempre colma, per il suo ricco raccolto, di frutti immortali; (85)
per questo motivo sappiamo che quei frutti non possono essere gustati dai mortali
né mai qualcuno udì i nomi con cui ciascuno di essi era chiamato,
ma giunse da lì soltanto il nome del fico,
che addirittura coprì con le sue foglie i nostri progenitori,
affinché le vergogne dei loro corpi non apparissero nude. (90)
Vero è anche che fece zampillare ai miserevoli, con il suo succo dolce come il miele
il gusto amaro della colpa mortale.
Fu così che il fico nacque da quegli incontaminati giardini
e, poiché lui soltanto ebbe compassione dei nati dalla terra, li avvolse coprendoli
Perciò io amo questo ombroso e dolce virgulto, (95)
perché mi insegna a detestare ogni sorta di intrigo,
apparendomi sempre somigliante ad amuleti vegetali,
che Adamo ed Eva, gravati dalla colpa, si cucirono addosso.
E mi sospingono le ricche messi di un’amabile virtù
all’altare del divino Signore, (100)
che mai egli, maledicendo il mio albero di sole foglie chiomato,
lo renda sterile e mi ordini di tagliarlo.
Ciò mi pungola a riandare indietro con i ricordi.
E sopra ogni cosa mi sembra di aver sentito una donna parlare.
“Caro mio, tu non consideri quanto giovamento mi reca (105)
un fico sterile, in virtù dei suoi frutti non commestibili.
Infatti poiché essi vengono appesi come offerte votive sui miei rami,
io stessa il frutto porto a maturazione, né trascuro quelli che cadono,
alle dure leggi di natura obbedendo.
Rifletti e fa’ in modo di trarre profitto dalla sapienza esoterica: (110)
tanto quanto io metto al riparo i frutti veraci da quelli posticci,
così tu da essi potresti preservare il frutto della vita e dello Spirito.
Ciò dissero Tethmotes e Imeron
ché fiorirono nella sapienza degli Egizi e dei Babilonesi.
Ma alcuni frutti tu anche dall’altro fico potresti coglierli; (115)
infatti ciò che è utile è stato concesso a tutte le piante dalla natura imparziale:
frutti che io, presso il mio ceppo, ho segretamente accolto,
privi di sostanza per chi ha menti selvatiche, per gli insipienti invisibili,
ma colti da coloro che frequentano i giardini della sapienza;
tu, vendemmiando da me soltanto, ti nutriresti di un cibo immortale. (120)
Ma rifletti su come potresti cogliere i fichi del divino raccolto,
nondimeno è necessario che, in qualche modo, tu richiami alla memoria gli acuti insegnamenti di Pitagora
Serve invero la sapienza di quell’uomo per chi voglia avventurarsi sulla via della ricerca
E così queste precise parole disse, benché tacesse, Theanó
Pitagorica, che si strappò la lingua con i suoi stessi denti, (125)
e gioiva la mia mente per questi nobili insegnamenti
E come un vangatore che, scavando fondamenta o pozzi o un orto,
fende con la zappa il ventre della terra, e allora da sotterra
le sue orecchie lambisce la lieta eco di un guadagno inaspettato,
ed egli si rallegra di essersi imbattuto nei doni della buona sorte, (130)
e, affrettandosi sulla vanga, rinvigorito, la sospinge nel terreno,
così il mio cuore sussultava, la mente invece si levò in atto di contemplazione.

Abbreviazioni bibliografiche

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Nota

1 In questo contributo si cita secondo il testo critico stabilito da Lampros (1879-1880, vol. II, pp. 375-390).
2 La fondazione del ducato, ufficializzata con l’investitura di Marco Sanudo a duca dell’arcipelago, risale al 1207: cf. Fotheringham-Williams (1915); Kretschmayr (1920, pp. 17-18, 21 e 566); Ravegnani (2009, pp. 64-71). Sulla datazione dell’evento, tuttavia, non c’è pieno accordo fra gli studiosi: Saint-Guillain (2006), per esempio, propone di posticipare la fondazione del ducato in un periodo compreso fra il 1212 e il 1216. Di conseguenza la datazione dell’epillio, che presuppone tale evento, oscilla tra il 1207 e il 1216.
3 In merito alla plurivocità dell’epillio cf. Carrozza (2020, p. 177). Sul giudizio stroncante che Trypanis offre del poemetto, invero del tutto immeritato, cf. Carrozza (1990, p. 118).
4 Sull’isola di Ceo cf. Malamut (1988, pp. 99-104 e 269).
5 Sulla quarta crociata cf. almeno Laiou (2005) e Harris (20142). Quanto all’esilio del metropolita d’Atene a Ceo cf. Mich. Chon., Ep. 101, p. 146 Kolovou.
6 Per una visione d’insieme ed altri aspetti notevoli dell’epillio, fra cui la descriptio geoaritmologica dell’albero di fico, mi permetto di rinviare, qui e in seguito, a Carrozza (2020, pp. 178-187).
7 Cf. Carrozza (2022).
8 Sulla concezione utilitaristica della letteratura, così profondamente radicata a Bisanzio, e sul principio dello ψυχωφελές cf. Maltese (2007, pp. 168-173).
9 Per altre attestazioni, anche paremiografiche, del rapporto fra ἡσυχία e ἀρετή cf. Degani (1977, pp. 23 ss.); sulla fortuna e i riadattamenti della favola e del motivo delle due vie cf. Martano (1985); Papageorgiou (2004).
10 Per il valore del termine ἡσυχία nelle odi pindariche cf., e.g., anche Pind., Ol. 1.32; Pyth. 1.70; 4.296; 8.1; XI 55; Nem. 1.70; 8.82; 9.48; etc. Quanto all’ideale della tranquillità nella città greca di età arcaica e classica cf. Demont (1990) e, in particolare, ibid., pp. 78-85.
11 Cf. Demont (1990, pp. 191-252); Hornblower (2004, pp. 60-63); Thuc., 6.18. 2-6 e ibid. 34.
12 Cf. Aloni (1988).
13 Cf. Reale (20084, pp. 144-148).
14 Cf. Meyendorff (1984, pp. 86-97).
15 Per un esempio di rilettura in chiave cristiana della dottrina dell’ἡσυχία, intesa come un’esortazione alla vita contemplativa e significativamente assimilata all’ ἀταρασσία di Epicuro cf. anche Leone il Filosofo, AP XV, 12, 1-3.
16 Sulle pratiche di lettura e la ricezione del testo letterario a Bisanzio cf. Cavallo (2004).
17 Cf. Livrea (1979) e Crimi (2015). Per un inquadramento complessivo del genere ecfrastico nella letteratura bizantina cf. Vavrínek-Odorico-Drbal (2011).
18 Sul tema cf. De Stefani-Magnelli (2011); Pontani (2011).
19 Su tale esegesi cf. Freedman & Simon (1961 XI.V, 11, 2 e VIII.VI, 2, 2); Reichmann (1969, pp. 668-678).
20 Cf. Špidlík (1988, 1, pp. 51 e 311-331).
21 Cf. Meyendorff (1984, pp. 91-94).
22 Cf. Koester (1990, pp. 23-43) e Koester (1995, pp. 23-43); Köstenberger (2004, p. 84)
23 Su Evagrio Pontico e le origini del pensiero monastico bizantino cf. Meyendorff (1984, pp. 82-86). Sulla necessità di contenere i bisogni corporali a fronte di un’indefessa attività contemplativa cf. Filone, De vita contemplativa 34.
24 Sul contemptus mundi cf., per es., Simeone il Nuovo Teologo, Orationes ethicae 3.1,672-677; Id., Capita theologica 1.78,15-25.
25 Sulla netta differenziazione fra il cibo spirituale e quello terreno cf. Simeone il Nuovo Teologo, Orationes ethicae 14.1.242-247.
26 Per una sintesi delle interpretazioni di questo controverso passaggio biblico cf. Telford (1980, pp. 1-38).
27 Cf. Krönung (2014, pp. 44-154).
28 Sul sogno biblico e la sua rivisitazione nella letteratura agiografica di Bisanzio cf. Pervo (1996) e Consolino (1989).
29 Per la critica condotta da Luciano contro gli oracoli cf. Caccia (2007, pp. 5-7); sul rinnovato interesse per le opere di Luciano nel XII sec. cf. Romano (1999, Introduzione, pp. 9-20 e spec. pp. 11-14).
30 Cf. MacAlister (1990). Per un’analisi approfondita degli svariati fenomeni onirici descritti nelle fonti letterarie di età tardo antica e sulla loro funzione nei romanzi d’amore e d’avventura cf. J.S. Hansen (1980); sull’elaborazione letteraria del motivo del sogno nei romanzi del XII sec. in riferimento ai loro archetipi tardo-antichi cf. ancora MacAlister (1996).
31 Sul valore linguistico di ὄλυνθος cf. Deroy (1956, pp. 177 ss.); sulla tradizione mitica di Olinto, la città del fico, cf. Chirassi (1968, pp. 70-71).
32 Cf., per un inquadramento della geomanzia pitagorica, Thorndike (1923-1934, 2, pp. 111-118).
33 Sull’attribuzione a Pitagora di testi ermetici e alchemici medievali cf. ancora Thorndike (1923-34, 2, pp. 214-228).
34 Cf., per questa controversa testimonianza di Erodoto, le osservazioni di Lindsberg (1992, p. 13); sugli influssi che la matematica egizia e babilonese esercitarono su Pitagora cf. Boyer (1976, pp. 56-63).
35 Sull’inautenticità di molti scritti pitagorici e sulla questione degli pseudoepigrafi cf. Reale (20084, pp. 191-199).
36 Sul pitagorismo giudaico e sulla trasfigurazione ebraico-cristiana della figura di Pitagora cf. Dupont-Sommier (1955).
37 Sulle epistole delle donne pitagoriche cf. Fumagalli (1996, pp. 117-140).
38 Cf. Vinagre (1996) e Lienhard (2005, pp. 83-84).

Recepción: 13 Julio 2023

Aprobación: 04 Septiembre 2023

Publicación: 11 Septiembre 2023

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